Due formaggi secolari di cui scoprire le differenze e la storia
Onnipresenti sulle tavole del Settentrione, Parmigiano Reggiano e Grana Padano primeggiano tra i generi caseari più utilizzati nella nostra cucina, quando non vengono degustati in purezza dopo una buona ossigenatura: per assaporarne al meglio le caratteristiche organolettiche, infatti, occorre lasciarli fuori dal frigo per almeno un’oretta, predisponendo un prelibato accompagnamento nell’attesa.
Entrambi i formaggi vantano il marchio DOP da decenni, ma hanno alle spalle una storia ben più lunga, dalle radici medievali. I punti in comune tra i due prodotti italiani sono davvero numerosi: privi di lattosio, hanno quasi le stesse proprietà nutrizionali in termini di proteine e sali minerali, proprietà derivate da una lavorazione a crudo che segue le stesse antiche fasi.
Che cosa li rende, dunque, due prodotti distinti?
C’è stato un tempo in cui il Parmigiano Reggiano portava un doppio nome, coniato indipendentemente dalle province di Parma e Reggio Emilia.
Quest’ultima, in particolare, chiamava il proprio formaggio tipico “Grana Reggiano”, utilizzando il termine generico di “grana” per indicarne la consistenza dura e granulosa. Solo negli anni ’30 del Novecento le due denominazioni si unirono e comparve per la prima volta la dicitura “C.G.T. Parmigiano Reggiano”, laddove la “G” dell’acronimo sta ancora per “Grana”.
Il Grana Padano, invece, nacque come “caseus vetus”, ovvero come “formaggio invecchiato”: furono i colti monaci dell’Abbazia di Chiaravalle a riferirsi al prodotto con i due termini latini, ma il popolo, meno incline a utilizzare una lingua distante dalla parlata quotidiana, battezzò semplicemente “Grana” quella novità, associando la parola che ne descriveva la consistenza ai toponimi dei luoghi dove veniva prodotta (ad esempio, il Grana Lodigiano).
Così, le prime menzioni del formaggio radunarono insieme (di nuovo) il Grana e la città di Parma.
Per far fronte alla confusione nella nomenclatura dei formaggi e assegnare tipicità distinte a prodotti con precise caratteristiche, nel giugno del 1951 si tenne un incontro internazionale per stabilire una regolamentazione ufficiale, da recepire nei singoli stati aderenti alla Convenzione.
In Italia, ciò fu fatto nel 1954, con lievi aggiustamenti normativi che consentirono alcuni adattamenti regionali, soprattutto per la denominazione del Grana (per la città di Trento, Trentingrana).
La prima differenziazione tra Parmigiano Reggiano e Grana Padano, dunque, è decisa dall’area di produzione, molto più ristretta nel caso del Parmigiano (quattro province contro le 32 del Grana per antonomasia).
Ma si riduce davvero tutto ad una questione di confini?
Benché la questione geografica sia identificativa, non è l’unica da tener presente: ricordiamo infatti che in media il costo al chilo del parmigiano reggiano supera di circa 5€ quello del Grana, e non soltanto in virtù dei diversi volumi di produzione, fisiologicamente più alti per il Grana Padano.
Ciò che impatta sui prezzi delle forme è anche la diversa durata della stagionatura, la cui prima tappa avviene dopo i primi 9 mesi per il Grana, mentre la prima marchiatura per il Parmigiano viene apposta soltanto al raggiungimento del dodicesimo mese.
La stagionatura del Parmigiano continua indefinitamente (vi è stata persino una forma record, da 18 anni di stagionatura!), con un consumo medio rivolto al prodotto stagionato per 24 mesi, laddove il Grana viene consumato più spesso ai 15 mesi: non a caso, oltre i 20 mesi il Grana Padano viene marcato a fuoco come “Riserva”.
In generale, il consumatore può tenere a mente che per produrre il Parmigiano Reggiano occorre attenersi ad un disciplinare più stringente, che consente ben pochi margini di manovra al produttore.
L’alimentazione delle bovine deve basarsi esclusivamente su fieno ed erba del luogo di produzione, senza il ricorso a grani insilati; il loro latte dev’essere raccolto due volte al giorno e fatto coagulare con il siero naturalmente ottenuto dal giorno precedente; una volta ottenuta la forma stagionata, poi, le vengono asportati i contrassegni qualora non rispetti gli standard di qualità selezionati dagli esperti (cosa che accade, in realtà, anche per il Grana Padano).
L’aggiunta di lisozima (un enzima utile per il controllo batterico, classificato come conservante ma spesso adoperato soltanto come adiuvante tecnologico) è permessa soltanto nel Grana Padano, anche se la sua presenza è regolamentata nella misura massima di 2,5g/100kg di prodotto. Il Trentingrana, però, non ne fa uso, cosa che avvicina tra loro il marchio trentino e il Parmigiano Reggiano. Dalla fine del 2019, inoltre, per il Grana Padano è prevista la possibilità di mungere le bovine con appositi robot.
Nonostante queste differenze, Parmigiano Reggiano e Grana Padano sono entrambi prodotti DOP d’eccellenza, gemelli diversi che meritano la loro fama a livello mondiale: scegliere di avere in tavola l’uno piuttosto che l’altro rimarrà una questione di preferenze personali.
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