La data di nascita del Vermouth – almeno come categoria merceologica – si può ricondurre ad una precisa annata: siamo nella Torino del 1786, in compagnia di un giovane ventiduenne originario di Bioglio. Costui è il padre e l’ideatore di questo vino aromatizzato: il suo nome è Antonio Benedetto Carpano, distillatore di professione che inaugurò un felice esercizio commerciale distribuendo agli avventori la ricca miscela alcolica a base di erbe (più di trenta nella formulazione settecentesca).
Il Vermouth deriva il suo nome da una di queste erbe, l’artemisia (più nota come “assenzio”): in tedesco, infatti, quest’asteracea si indica con la parola Wermut, già nota alla Farmacopea Taurinense per le sue particolari proprietà. Da questo trattato medico il Carpano prende probabilmente ispirazione per creare il suo Vermouth, presso la liquoreria di Piazza Castello, dandogli un sapore zuccherino che lo distinse dalla caratteristica amarezza delle elaborazioni farmaceutiche.
Dalla fine del XVIII secolo, il Vermouth si fa conoscere e spopola tra i consumatori, tanto da raggiungere la corte di Savoia: alcuni “protodisciplinari” si propongono di tutelarne la ricetta, che si differenzia di regione in regione. Il primo spartiacque, nella sua produzione, è la destinazione che ha il suo utilizzo: si tratta di un vino consumato per le supposte proprietà benefiche oppure di una miscela d’alcool ed erbe creata per il puro piacere del palato?
La bilancia si sposta sempre più verso la seconda risposta.
Il secondo distinguo che si crea, in ordine di tempo, è invece basato sul colore di questo vino, storicamente bianco: sul finire dell’Ottocento il Vermouth bianco Gancia riceve una premiazione a Chicago, mentre nel 1903 viene creato il Vermouth Bianco Highlife dell’azienda milanese Isolabella. Il primo disciplinare di produzione arriva negli anni ’30: si fissano la gradazione alcolica minima (al 15.5%) e alcune altre caratteristiche, parte delle quali viene accolta anche odiernamente. A metà del secolo scorso, infine, il Vermouth incontra il mondo dei cocktails, diventando noto sotto il nome di molteplici preparazioni che lo coinvolgono (Martini, Americano, Negroni, Manhattan…).
Dopo una fase di declino negli anni Settanta e Ottanta, il Vermouth riprende lentamente piede sul finire del secolo scorso, ritrovando la propria fama nel 2010, in occasione del Salone del Gusto di Torino. Il 22 marzo 2017, infine, riceve il riconoscimento del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali e guadagna l’indicazione geografica come Vermut o Vermouth di Torino, prodotto tipico regolamentato da un disciplinare che ne spiega anche le differenti cromie.
Dal documento, si legge: “colore: bianco (da bianco a giallo paglierino fino a giallo ambrato) e rosso (in tutte tipologie e tonalita'); le singole caratteristiche sono legate agli apporti cromatici determinati dai vini e/o dalle sostanze aromatizzanti e dall'eventuale impiego di caramello”.
L’unico “colorante” menzionato è dunque l’E150, ma anche la lunga lista di erbe aromatiche impiegate contribuisce alla sfumatura del composto: le differenti proporzioni di achillea, camomilla, issopo, santoreggia, maggiorana, salvia sclarea, sambuco, timo e ancora di cannella, cardamomo, chiodi di garofano, coriandolo, noce moscata, vaniglia e zafferano mutano il colore del vino, così come il suo sapore.
Il Vermouth è stato storicamente prodotto utilizzando il Moscato di Canelli, vini bianchi piemontesi, siciliani, pugliesi, romagnoli e sardi, ma non vi è alcun divieto esplicito all’utilizzo di vini rossi: se si vuole rispettare la tradizione, tuttavia, si continueranno a preferire i bianchi e, per produrre Vermouth Superiore, sarà invece obbligatorio l’utilizzo di un 50% almeno di vini piemontesi.
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