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Voyage au pays du vin : un conte de 1938

Un sabato, una visita ai miei genitori, ed ecco che mia mamma pesca dai vecchi ricordi di famiglia una pagina di un giornale e mi dice, leggila, la ha scritta tuo prozio.
"Il Resto del Carlino", data settembre 1938, rileggo, 1938!

Parla di vino, parla di Verona, Valpolicella, parla - con un linguaggio ben diverso dal "corsivo" odierno - di storia, dei contadini, storia del vino quando ancora non esisteva l'Amarone ma solo il Reciotto (non ho sbagliato a scrivere, si chiamava così). Parla di un treno che portava dalla Stazione di San Giorgio a Verona, parla appunto del Reciotto. Forse sarà perché non capita tutti i giorni di ritrovare un giornale vecchio quasi 100 anni, forse sarà anche perché è antitetico a quanto faccio io (web, allora non si sapeva ovviamente cosa fosse), forse perché non sapevo che mio prozio scrivesse - e pure bene - ma mi stavo emozionando.
Spero possa accadere anche a voi, leggendo queste righe.

Settembre 1938: Viaggio attraverso il Paese del vino.
C'è chi va e c'è chi viene - ci diceva un vecchio bevitore, alludendo alle usanze che tramontano; ma il vino non cade mai in disuso. Bacco è un dio costante.

Lo diceva con piena convinzione, mentre guardava contro luce il suo bicchiere pieno di un bel vino rubino e lo assaporava lentamente, godendoselo tutto. C'era nella sua figura qualche cosa di patriarcale, di altamente solenne. Non basso, con la pelle del viso che si indovidava dura ed incartapecorita, con le mani callose ed un fiero paio di baffi, era la perfetta immagine della sana bonarietà. Confessava che i suoi anni erano ottantasei e che si avviava deciso verso il secolo. Ma l'amico che gli teneva compagnia che gli faceva conservare la giovanile tradizione dell'allegria era ancora ed invariabilmente il fido mezzolitro.

Strana tradizione, quella del vino. Da quando Noè non stimò disonorevole berne un poco oltre il necessario, il vino passò attraverso i secoli come un trionfatore, fino ad avere un suo dio nel rosso Bacco. Niente di male ad abbandonavisi un poco.
Chi non ha mai peccato almeno una volta di eccessiva tenerezza per il rosso liquore della vite? E si potrebbe rammentare la storiella del bevitore impernitente, il quale si scusava con il suo confessore spiegando che il vino rende allegri, l'allegria porta buoni pensieri, i buoni personi portano le buone azioni, e le buone azioni conducono in paradiso. Ma, anche se non si vuol scendere su un terreno così metafisico, bisogna riconoscere che per la nostra sana razza campagnola il vino è un tonico, sia morale che fisico di eccezionale efficacia. Il contadino lavora tutta la settimana, e il mezzolitro bevuto in compagnia alla domenica gli sembra la ricompensa della quotidiana fatica.

Nel vino il lavoratore dei campi riconosce lo spirito della terra, che egli lavora amorevolmente ed instancabilmente, e che sembra ritornargli il prezzo del suo sudore, attraverso la pace e la soddisfazione conferita da un buon bicchiere.
 

La Transvalpolicelliana

Proprio, il vino è gioia della terra. Vi si sente dentro un lungo amore ed una secolare benevolenza. La terra non dimentica di essere l'antica Madre, e porge all'uomo il confortante liquore che infonde forza, sicurezza, gioia. E' la gioia della terra che si da incontro all'uomo per aiutarlo a sorpassare le piccole note di quaggiù; è la terra che gli si interessa, che lo ripaga del grande amore e della lunga fatica. 

Ma per comprendere meglio queste cosa bisogna venir a visitare queste terre veronesi, benedette dal buon Dio, ora che la vendemmia popola i campi e riempio le rozze ceste di grappoli neri, rubini, ambrati. Verona, in fatto di vino, ha la sua storia. E' dell'anno scorso il successo ottoenuto alla Mostra Nazionale di Siena dai vini veronesi. E, ritornando indietro, di venti secoli, il famoso vino retico, tanto caro a Tibullo e a Cicerone, non veniva forse dagli ubertosi colli veronesi?

Lasciamo stare. Il bevitore di gusto, quello che non si ubriaca, perché ubriacarsi è profanare il vino, ma che lo gusta godendo della leggera e sana esaltazione che gli mette nell'anima, non dovrebbe mai trascurare di fare un viaggio attraverso la Valpolicella.

C'e una cara ferrovia che parte dalla stazione di San Giorgio da Verona e che, attarverso due ore di viaggio, biforcandosi ad Affi, trasporta o sul Garda o a Caprino, alle falde del Monte Baldo. La linea è di circa quaranta chilometri ed i quaranta chilometri sono coperti in poco meno di due ore. Niente da spventarsi. Gli amatori delle grandi velocità, degli elettrotreni ultradinamici, dei 180 all'ora, non si scandalizzino. A questo mondo, tutto è relativo. Il viaggiatore che si imbarca sulla Verona-Caprino-Garda deve essere disposto, già prima di partire, a non aver fretta. D'altra parte far correre un terno ad una velocità maggiore attraverso questo paesaggio georgico, sarebbe una profanazione. In tale maniera modesta viene rispettata la quiete idillica dei luoghi: nessuno potrebbe lamentarsi, e nemmeno la grande ombra di Virgilio troverebbe nulla da ridire.

Il bue nei campi alza appena il capo a salutare con un mugghio la famigliare vaporiera, che, senza rumore e senza pretese, attraversa il suo regno.

Il quale, per i primi venticinque chilometri, è la Valpolicella, tanto è vero che la ferrovia si meritò il nome di Transvalpolicelliana. Parola lunga, che, con piena serietà, si mette a fianco di certi altri nomi famosi, tipo Transamericana o Transiberiana, e che tra parentesi, rischia di battere il primato di lunghezza delle parole, tendando di eclissare il celebre "precipitevolissimevolmente" con cui messer Ludovico fece un verso del suo "Orlando".

Ma certo, per chi vuol godersi la Valpolicella, i trenta all'ra della ferrovia sono l'ideale. Il convoglio composto da una locomotriva tipo 1890 - alta ciminiera, quattro ruote, lunghezza cinque metri - e di due o tre carrozzoni, pure questi secondo la moda antica, compassati come vecchie matrone e con le piattaforme all'aperto, passa in questi giorni attraverso una Valpolicella fremente di opere.

Vogliamo salire? Uno dopo l'altro si susseguono piccoli paesi: Pedemonte, Negrar, San Floriano, San Pietro Incariano, Gargagnano, Domegliara, tutti nomi di vittorie. Sono poche case bianche aggruppate al piede dei monti, col campanile romantico e una grande distesa di vigneti intorno. Passando con la ferrovia, si vedono i pingui colli coperti di vigneti rossicci, dai quali pendono dei bei grappoli che mettono la gioia nell'anima solo ad essere visti. Colli e colli, vigneti e vigneti: e la ferrovia ci passa in mezzo. La linea del vino, si potrebbe chiamarli; ma non ce n'è bisogno, perché tutti lo sanno a lo sottointendono volentieri.
 

L'itinerario del vino

Fervono le opere, in questi ultimi giorni di settembre, sui colli della Valpolicella. Le ceste si empiono di grappoli che sembrano il frutto del sacro connubio tra la terra e il sole, e lungo i sentieri rotolano carri pieni di ciò che domani sarà mosto e fra una settimana sarà vino.  Fra qualche giorno questi colli saranno tristi. Le vigne saranno coperte come da un velo di melanconia, più nude, più dritte verso il cielo, e le foglie saranno gialle. Sembreranno rimporoverare l'uomo d'aver strappato il dolce frutto troppo presto. Ma domani potrebbe piovere e l'uva gà matura, marcirebbe. E allora è meglio cogliere subito, sin che si può, questa grazia di Dio, questo sole cacchiuso in acini di gioia. 

E' da questi colli che viene quel vino gustoso e prelibato che ha il nome di "Reciotto", malamente italianizzato da qualcuno in Recchiotto. Chi no lo ha mai assaggiato una volta? Esso, robusto e frizzante, seduceva perfino il terribile leone che in fatto di vini fu Giosuè Carducci e lo spingeva a passare lunghe invernate presso i suoi amici veronesi. Ma giacché ci siamo, proseguiamo con questa virgiliana ferrovia fino alle sponde del Benaco prodigioso di settembre, fino a Bardolino, sacra a Bacco. Chi non conosce il vino Bardolino? Forse è il migliore di tutta la zona veronese: pieno, limpido, scintillante, meno dolce ma più saporito dell'Albana, più completo del Chianti, più gustoso del Lambrusco. E' forse questo vino che procurò a Betteloni, il dolce poeta che da Bardolino cantò il lago, l'ammirazione di Giosuè Carducci, il quale nei suoi giudizi si serviva spesso di criteri enologici. E' forse con questo vino che Catullo, malato ed infelice, cercava di dimenticare nella vicina Sirmione il tradimento di Lesbia.

E così, ora chei primi venti autunnali fanno rabbrividire lo specchio lucente del lago e costringono a fuggire gli ultimi villeggianti del Benaco, s'inizia la vendemmia nei rigogliosi vigneti di Bardolino.

Fra quindici giorni il vino sarà pronto e comincerà a partire per Verona, donde sarà avviato verso i vari centri italiani ed esteri. C'è una gran richiesta di Bardolino, in questi tempi, ed i produttori non sanno come soddisfare tutti. Vengono ordinazioni da Venezia, da Milano, da Roma che non s'accontenta del suo Castelli, della Romagna che per il Bardolino tradisce l'Albana, da Monaco, da Ginevra, da San Gallo, dai luoghi dove si è devoti alla birra e qualche cassa di botiglie, ben suggellata e con sgargianti etichette, parte anche per l'America.

Dolce settembre sui colli di Bardolino, quando il lago freme alla blanda carezza dei primi venti di autunno, quando si ha d'intorno la strana sensazione di un paese di sogno, un paese costruito dalla fantasia al di fuori delle preoccupazioni quotidiane, un rifugio della mente nell'idillio dei lauiri e degli olivi, nell'incanto dei tramonti e dell'aria, sui cui pesa un indefinibile velo di vapore azzurrino!
Allora i colli si popolano degli artefici della vendemmia, e nell'abitato passa l'odore dolce e un po' piccante dei mosti che fermentano.

Ma non bisogna credere che con la Valpolicella e con Bardolino sia finito l'itinerario del vino. Bisognerebbe spingersi fino alla zona sotto Peschiera, denominata Lugana, la selva Lucanica dell'antichità che dà un vino bianco dolcissimo e prelibato. Bisognerebbe fare una punta fino a Soave, ancora severa nelle mura e nel castello scaligero, ed assaggiare quel forte e gagliardo vino rosso, ed il bianco frizzante e leggermente acidulo, che ha il nome di "Torbolino" per il caratteristico colore che non permette trasparenza. Ma si rischierebbe di tornare a casa con gli occhi lucidi, il che non è permesso.
Vittorio G. Paltrinieri

Fabio De Vecchi - autoreFabio De Vecchi

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